lunedì 28 febbraio 2011

Terzo anniversario della morte di Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008)

Mercoledì scorso dom Gérard e io eravamo in automobile. Tornavamo dalle esequie di sua cognata, la moglie di Jean Calvet. Stavamo recitando l’ufficio di Nona. Dom Gérard amava molto l’inno di questo ufficio, che paragona il calare del sole alla gloria eterna che accompagna una santa morte. Abbiamo trascorso cinque ore assieme, cinque ore deliziose, grazie alla sua benevolenza, alla sua cultura, alla sua grande presenza di spirito e alla sua ampiezza di vedute. Avrebbe amato morire in coro. Officiava Nona quando ha avuto un attacco. Le sue ultime parole sono state: «Pater noster». Si è leggermente prostrato per significare l’inclinazione profonda che facciamo in rispetto della maestà del Padre celeste, e non si è più rialzato. La sua morte, come l’intera sua vita, assomiglia a un semplice e maestoso tuffo nelle braccia del Padre, un tuffo in Dio. In maniera provvidenziale, le sue ultime parole sono come un ultimo testamento, il riassunto di tutta la sua vita, Pater noster.
Dom Gérard non ha cessato di ripetere e di vivere durante tutta la sua esistenza di monaco, di fondatore e di abate, il primato di Dio. Nella sua vita non vi è nulla di mediocre, nulla di piccolo, nulla di facile, perché vedeva le cose alla luce della trascendenza di Dio. È la trascendenza di Dio che l’ha catturato nella vita monastica. Ascoltate la sua confessione, quando definisce la vita contemplativa: «È Dio che ne è il principio e la fine. Dio, per la sua stessa eccellenza, suscita la vita contemplativa. Dio merita infinitamente che delle creature s’impegnino, si consacrino totalmente, per sempre ed esclusivamente, a cercarlo, a lodarlo, ad adorarlo; è questa la norma… Una religione che non è contemplativa, è indegna di Dio! Allora, poiché egli è interessato a Dio al di sopra di tutto, non soltanto lo prova, ma egli inoltre testimonia l’eccellenza di Dio».
Dom Gérard è un autentico cavaliere di Dio.
È sufficiente guardare questa chiesa abbaziale e questo monastero, la cui mole di lavori fu una vera sfida – se non una provocazione – al mondo moderno senza Dio. Nulla è troppo grande per le opere compiute al servizio della maestà divina. Quest’abbaziale esprime di per sé stessa tutta l’audacia della sua adorazione e della sua fiducia in Dio.
Dom Gérard è assai noto per avere difeso con vigore il principio di verità, come si evince dalla lunga serie di lettere agli amici. La più grande battaglia di tutti i tempi, secondo la parola del suo maestro André Charlier. Dom Gérard ci ha messo in guardia contro questa tendenza che hanno gli uomini di preferire – giacché meno pericolose a viversi – le verità sminuite, che non fanno più paura ad alcuno. Egli orientava bensì il nostro sguardo verso quei grandi santi, verso coloro che hanno fatto l’Europa, verso quegli uomini e quelle donne che indirizzano la storia al cielo, e che sono sempre stati controcorrente, che hanno sempre mantenuto alta la barra per rispondere completamente alle esigenze della verità integrale.
Un giorno Gustave Thibon gli scrisse, in una lettera divertente e profonda, che aveva scelto il posto giusto fra «il caravanserraglio progressista in cui tutto si confonde e l’isolotto integrista in cui tutto si separa». Dom Gérard gli rispose che fra questi due estremi, non vi è che un solo posto a essere quello giusto, ovvero quello che unisce a un’autentica passione per la verità integrale, un amore generoso per questo mondo in procinto di nascere.
Dom Gérard è ancora più conosciuto per la sua difesa della liturgia tradizionale. È ben noto e finanche temuto. Perché si tratta di un ambito sacro che ci prende tutti al cuore. In quanto la liturgia è indissolubilmente legata alla fede, alla verità della fede, alla verità integrale della fede. Egli amava questa grande liturgia ricevuta dalla profondità delle epoche, levigata dal tempo e dall’esperienza; amava questa liturgia come una meravigliosa educatrice, che insegna – meglio di qualsivoglia altro procedimento – a fare l’apprendistato della trascendenza di Dio.
Qui si comincia a toccare con mano la vita interiore di dom Gérard. Ieri ho iniziato l’omelia con questa citazione di san Pio X che dom Gérard prediligeva: «La liturgia è la prima e indispensabile fonte dell’autentico spirito cristiano». Più profondamente ancora, ci lasciava qualcosa della sua anima quando svelava che nelle cerimonie sacre, solenni, «qualcosa di celeste e di pacificante viene a toccare la terra; la liturgia suscita in noi uno spirito d’infanzia che si meraviglia, uno spirito d’adorazione che è lo zoccolo dell’umiltà e la condizione dell’autentico amore, uno spirito di pace fra gli uomini, che essa raduna e unisce con dolcezza attorno all’Uomo-Dio, presente in sacramento».
Per cercare di entrare nell’intimità di Dom Gérard bisogna entrare nella vita interiore. Quando gli si rivolgevano dei complimenti sulla sua comunità – giovane, fervente, numerosa – rispondeva che la bellezza e l’avvenire di una comunità sono soprattutto legati alla qualità della vita interiore di ciascuno dei suoi membri e non alle variazioni della sua apparente prosperità. Dom Gérard ci socchiudeva il suo cuore quando cantava questa beatitudine: «Beate le comunità i cui monaci, sia nel silenzio della cella sia nel loro stallo al coro, possono gustare qualcosa del bene sovrano e conoscere le primizie delle gioie eterne». Nella lettera n. 95 Les amis du monastère ci lanciava una sfida, a noi suoi figli, ricordandoci che la nostra comunità si è ingrandita grazie all’influenza esercitata su di essa dal ricordo e dall’esempio dei nostri fondatori: Padre Muard, un uomo di grande preghiera, Dom Romain Banquet e Madre Marie Cronier, per i quali l’idea guida fu la vita interiore. Precisava che era senza alcun dubbio in questa direzione che avremo dovuto lavorare, se vogliamo restare fedeli allo spirito del nostro santo Patriarca. La vita interiore non è affatto un abbandono codardo della sfera temporale e dei nostri fratelli del secolo, ma una vita interamente persa in Dio per la vita del mondo. Diceva che il monaco deve agire non nel mondo, ma sul mondo.
Dom Gérard è ben noto per le sue battaglie, ma per non farne una caricatura non si dovrà dimenticare la sua grande bontà e la sua profonda dolcezza. Dom Gérard credeva alla potenza della verità e credeva altresì a quella della bontà. «La bontà – ricordava, riprendendo un proverbio indiano – è come il legno di sandalo che profuma la scure che lo taglia». Sapeva che questa dolcezza era indispensabile da una parte e dall’altra per una riconciliazione fra mons. Lefebvre e Roma. Ecco cosa scriveva all’inizio del 1988: «Non si può nascondere la gioia che regna in queste case, la rettitudine dottrinale, l’abbondanza e la giovinezza del reclutamento. Ma supponiamo che sia realizzabile una soluzione di reintegrazione di queste opere nel quadro ufficiale della Chiesa; si ritiene che ciò si produca senza uno sforzo di mutua comprensione?». È un’intenzione di preghiera che ha portato nella sua corona del Rosario da vent’anni e che ora ha portato in Cielo.
Nell’automobile che ci conduceva a Bordeaux, qualche giorno fa, parlavamo di queste divisioni nel seno della Chiesa, di queste divisioni che sono ovunque e sono la causa di tutte le assenze di carità. Lo rivedo fare un gesto che gli era di costume, con le mani sulle tempie, ed esclamare: «È spaventoso».
Per quel che riguarda la nostra comunità, mi faccio un dovere di ricordare la sua ultima esortazione in qualità di abate. Era il 24 novembre 2003, la vigilia dell’elezione del suo successore. Ci ricordò i tre pilastri della fondazione: la verità, la Regola e la liturgia, e aggiunse che mancava qualcosa, quel qualcosa senza il quale ogni fondazione è traballante. Quel qualcosa, è la corrente di carità fraterna. E ci diede come modello la bella icona del mistero della Visitazione. La beata Vergine Maria, Madre del Salvatore, che abbraccia sua cugina Elisabetta nella quale sussulta san Giovanni Battista. Vi ricordo le sue ultimissime parole d’abate: «È l’ultima volta che mi pronuncio come abate davanti a voi… Potete indovinare tutta la mia emozione… Le mie ultime parole saranno: Amatevi gli uni gli altri». Indicandoci questo, ci rimandava al suo patto con i santi angeli. Aveva loro chiesto due cose: anzitutto che non ci fossero incidenti alle persone sul cantiere, e in secondo luogo che non venissero compiute delle ferite alla giustizia e alla carità. Dicendoci quelle ultime parole, ci immergeva nell’incandescente carità di Padre Muard, che ha tanto amato. Padre Muard aveva dato ordine che in tutte le case uscite dalla Pierre-qui-Vire dovevano essere scolpite sulla pietra queste parole di san Giovanni: «Amatevi gli uni gli altri». Il suo desiderio era che questa divisa si possa inscrivere nei nostri cuori.
Per penetrare un po’ di più nell’anima del nostro veneratissimo padre, bisogna adesso volgerci alla Nostra Signora. Egli aveva assunto quale insegna «Per Te Virgo» ed Ella campeggia sul suo stemma abbaziale sotto forma di stella, Stella maris. Dom Gérard aveva una pietà mariana quasi impetuosa. Da bambino le aveva costruito un oratorio e sembra che occorresse calmarlo dai suoi ardori nel coinvolgere la sua intera famiglia a pregare Nostra Signora per la Francia. È vero che non ha dedicato molte lettere alla Vergine Maria. Era diventato il suo giardino segreto, che non apriva se non in una grande intimità. La prima volta che l’ho incontrato per aprirmi a lui circa la mia vocazione gli dissi due cose; in primo luogo che avevo trovato a Le Barroux le due condizioni della mia vocazione: la fedeltà a Roma e lo spirito tradizionale. Dopo di che parlammo a lungo della santa Vergine e della potenza protettrice del Rosario contro i torrenti distruttori del secolo. Mi confidò che era stata Maria a fare uscire la fondazione dall’impasse. Non sentiremo più il clicchettio del suo Rosario. È partito un 28 febbraio, giorno dell’undicesima apparizione della santa Vergine a Lourdes.
Avevo la mia mano sul suo cuore, ho sentito l’ultimo battito del suo cuore, e conservo ancora sul palmo della mano quest’ultimo flebile battito del cuore. Lo conservo per me.
Dio ci ha dato Dom Gérard.
Dio ci ha tolto Dom Gérard.
Che Dio sia lodato per sempre.
Pater noster.

[Omelia pronunciata da Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate di Le Barroux, il 3 marzo 2008, in occasione delle esequie di Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate dell’abbazia Sainte-Madeleine, in Reconquête. Revue du Centre Charlier et de Chrétienté-Solidarité, n. 247-248, aprile-maggio 2008, pp. 11-12, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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domenica 27 febbraio 2011

Un ministero di contemplativo, di liturgo e d'intercessore

[Nell'imminenza del terzo anniversario della scomparsa di Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), riproduciamo di seguito l'in memoriam comparso su Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, anno XXXVI, n. 346, marzo-aprile 2008, p. 17. Nella foto a fianco, Dom Gérard benedice uno stendardo di Alleanza Cattolica (immagine d'archivio della seconda metà degli anni 1970)]

Il 28 febbraio 2008 è nato al cielo l'abate dom Gérard Calvet O.S.B., una figura di spicco del mondo cattolico francese.
Nato a Bordeaux il 18 novembre 1927, prende l'abito benedettino nell'abbazia di Madiran il 2 febbraio 1950. Pronuncia i voti solenni nella comunità di Tournay il 18 febbraio 1954 ed è ordinato sacerdote il 13 maggio 1956. Nel 1963 è in Brasile dove il monastero di Tournay ha una fondazione. Al suo ritorno nel 1968 rimane scosso dalle prime avvisaglie della riforma liturgica in atto e a poco a poco matura la decisione di dar vita a una comunità di monaci che conservino la tradizione liturgica romana nella forma ricevuta prima delle riforme. Questo diventa il compito della sua vita, mai disgiunto da una visione d'insieme che pone la liturgia in un contesto teologico, spirituale e sociale ben più vasto, di cui è un segno anche la benevolenza e la simpatia dimostrata per l'apostolato di Alleanza Cattolica. Di carattere forte, ma anche prudente e realista, dom Calvet conduce la sua battaglia chiedendo aiuto — a partire dal 1974 — a mons. Marcel Lefebvre (1905-1991) per l'ordinazione dei suoi monaci, ma se ne distacca nel 1988 in seguito alle ordinazioni episcopali irregolari avvenute a Ecône, mentre da Roma gli viene offerta la possibilità di continuare la sua battaglia per la conservazione del patrimonio liturgico nella piena regolarità canonica senza nessun compromesso inaccettabile. È così che dapprima a Bédoin e poi a Le Barroux si viene formando una rigogliosa comunità monastica, composta soprattutto da giovani, che costituisce il segno vivente e la testimonianza concreta della benedizione divina sul suo impegno per lo splendore della liturgia, che è a sua volta — secondo la famosa espressione di dom Prosper Guéranger (1805-1875) — «la stessa tradizione nel suo grado più alto di potenza e solennità» (Institutions liturgiques, vol. I, Fleuriot-Débécourt, Le Mans-Parigi 1840, p. 3). Benedetto abate dell'abbazia autonoma di Santa Maddalena a Le Barroux il 2 luglio 1989, dom Calvet conduce la sua comunità con mano sicura e saggezza pastorale, attraverso difficoltà, abbandoni e nuove fondazioni fino al novembre 2003.
Ora lascia in terra un'eredità preziosa e continua in cielo il suo ministero di contemplativo, di liturgo e d'intercessore.

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mercoledì 23 febbraio 2011

Ora et Labora a Le Barroux


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martedì 22 febbraio 2011

Un cantiere monastico

Il monastero Sainte-Marie de La Garde, fondazione dell'abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, prosegue i lavori del proprio cantiere, come si può vedere nel breve video che riproduciamo qui di seguito. Sempre nel sito del monastero, è possibile accedere a un "abbecedario monastico", alla cronaca del mese di gennaio 2011, e a varie modalità per sostenere la costruzione del monastero.


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venerdì 18 febbraio 2011

La liturgia, gioia di Dio e degli uomini

«Cos’è la liturgia?», chiese un giorno Carlo Magno al suo saggio ministro e cappellano Alcuino. «La liturgia – rispose il monaco – è la gioia di Dio!». La liturgia è la gioia di Dio perché è il culto che gli rende il suo Figlio unigenito, eterno sacerdote; perché è il culto pubblico, l’espressione dell’omaggio, dell’adorazione, della lode, dell’azione di grazia che la Santa Chiesa rende – essa pure – alla maestà divina, mettendo in opera il sacerdozio regale del suo sposo, il Cristo, nostro Signore.
La liturgia è la gioia di Dio perché lungo il corso del ciclo annuale in cui si svolge, è tutto il mistero del Verbo incarnato, redentore di tutti gli uomini – il solo mistero che, finalmente, interessa a Dio –, che si dispiega, che è commemorato e, in qualche modo, reso nuovamente presente, ri-attualizzato: la venuta di Cristo sulla terra, la sua nascita, la sua manifestazione al mondo, la sua predicazione del regno dei cieli, la sua dolorosa passione, la sua morte sulla croce, la sua gloriosa risurrezione, la sua ammirevole ascensione, il dono dello Spirito Santo consolatore fatto alla sua Chiesa.
La liturgia è la gioia di Dio perché, ogni giorno, mediante il ministero sacerdotale, si rinnova sull’altare il sacrificio unico dell’agnello che toglie i peccati del mondo e che rende al Padre, in nome dell’intera creazione, «ogni onore e ogni gloria». La Messa è il cuore della liturgia e le altre parti del servizio divino, dell’Ufficio divino, ne sono come l’irradiamento. Soprattutto in questo punto centrale Dio trova la sua gioia, poiché è là – nel Santo Sacrificio – che si ristabiliscono le relazioni dell’uomo con Dio, infrante dal peccato; che si equilibra il rapporto di tutto il creato con il suo Creatore.
La liturgia è la gioia di Dio perché è la sua opera. Egli ne è l’oggetto. Egli ne è il fine. La liturgia magnifica Dio. Egli è l’agente principale di quest’opera che realizza cose divine, ma che ha voluto vedersi compiere tramite mani e su labbra umane.
Gioia di Dio, la liturgia è inoltre – afferma dom Guéranger – la «gioia dei popoli», ovvero la gioia degli uomini diventati figli di Dio, nostra gioia! «Essendo la grazia santificante che fiorisce in canto e si esprime in fede, speranza e carità, la liturgia è l’atto proprio di colui che ha la grazia, che è abilitato dal carattere battesimale a trattare con Dio»; è il bene proprio dei figli di Dio.
La liturgia è la gioia degli uomini; gli uomini sono fatti per Dio, per andare a Dio; hanno bisogno di redenzione, di santità, per ritrovare o mantenere il contatto con il Dio santo. Ed è la liturgia a procurarglielo. «In essa, lo Spirito Santo ha avuto l’arte di concentrare, di eterizzare, di diffondere in tutto il Corpo di Cristo la pienezza inalterabile dell’opera redentrice, tutte le ricchezze soprannaturali del passato della Chiesa, del presente, dell’eternità».
La liturgia è la gioia degli uomini perché è per loro il mezzo privilegiato dell’approccio divino, «una strada maestra, quasi sacramentale»; la fonte del loro progresso spirituale: giorno dopo giorno, domenica dopo domenica, «il filo del pendolo liturgico imprime nell’anima battezzata una più grande similitudine con il Signore».
Per mezzo della liturgia la nostra fede s’illumina di anno in anno, si affina in noi il senso di Dio, la preghiera ci conduce a una migliore conoscenza delle cose di Dio, poiché «il ciclo liturgico è un Credo vissuto». I misteri rimangono misteri, ma il loro splendore diventa più vivo… La speranza, anch’essa, s’accelera davanti allo spettacolo dei mirabilia Dei, delle meraviglie che Dio ha compiuto in favore dell’uomo. Infine la nostra carità s’infiamma sotto l’azione dello Spirito Santo che opera in noi nella divina liturgia.
La liturgia è la gioia degli uomini perché è la più alta scuola di preghiera: in maniera persuasiva, quasi senza vincoli, essa c’insegna la contemplazione cristiana, che è preghiera e amore. Nell’ambito della liturgia riceviamo i sacramenti, canali della grazia; è in tale contesto che partecipiamo al sacrificio del Calvario, che ci comunichiamo al Corpo di Cristo. Quando, sacerdote, io dico Messa, «ho nelle mani quel che occorre per dire a Dio un grazie degno di Lui, giacché offro a Lui Gesù Cristo. Quando, membro di Cristo per il battesimo, mi comunico, io possiedo Gesù Cristo. Quando si ha Gesù Cristo, si ha tutto. La supplica, l’adorazione, l’azione di grazie, è Lui, e quando Lo offro al buon Dio, io rimango con il buon Dio, perché Gesù Cristo è tutto, è l’Offerta Infinita!». Mediante l’eucarestia tocchiamo Dio e Dio ci tocca, ed è già per noi un anticipo di Cielo. Dove troveremo un più grande soggetto di gioia?
La liturgia è, ancora, la gioia degli uomini perché è un’opera di bellezza, adatta a rapire lo spirito e il cuore dall’inizio alla fine; ci fa cantare Dio e gioire in Lui. La liturgia della Chiesa è il più vasto, il più grandioso, il più vivo dei poemi. La poesia è ovunque nella liturgia, dice ancora dom Guéranger, poiché lei sola è all’altezza di ciò che dev’essere espresso. Tutto quel lirismo, tutte quelle preghiere, tutte quelle cerimonie, tutti i canti e i cantici dalle melodie così diversificate, sono state scelte e messe in opera dalla Chiesa per innalzarci al livello divino, per suggerirci la grandezza di Dio, per donarci quasi un anticipo della gioia del Cielo. Chi misura questo dono della Chiesa agli uomini? La Chiesa, tuttavia – di secolo in secolo –, ha aperto e aprirà tutto questo tesoro, questa magnificenza, ai minori dei suoi piccoli. La liturgia è così la nostra vita teologale diventata canto d’ammirazione e canto di allegria. Infine, la liturgia è la gioia degli uomini perché riporta ogni anno le feste dei santi che amiamo e che sono nostri intercessori presso Dio, Nostra Signora soprattutto!

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La liturgie: joie de Dieu et joie des hommes (Sermon par un moine bénédictin), in Quatre bienfaits de la liturgie, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1995, pp. 35-40, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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martedì 15 febbraio 2011

Quel che dobbiamo a san Benedetto / ultima parte

[la prima parte qui; la seconda parte qui; la terza parte qui]

L’affettuosa carità comunitaria

Non si può costringere chicchessia ad avere fame; non si possono indottrinare con la forza le anime alle quali sfuggono la posta in gioco e il costo del combattimento spirituale, ma si può, come per osmosi, farle tentare di condividere la nostra felicità. La Regola di san Benedetto è interamente penetrata di carità fraterna e filiale, di bontà paterna e misericordiosa. Se qualcosa può essere salvato in questo grande naufragio della civiltà, se l’anima moderna – più affettiva che strutturata – può lasciarsi toccare da una grazia che l’attrae e la fissa nel bene, sarà in ragione dell’esempio della pace interiore e della preghiera dei monaci, della loro devozione e della loro comunione nelle gioie e nelle sofferenze che sigilla il patto comunitario e lega i fratelli fra di loro, avvolgendoli di carità divina.
La spiritualità tutta familiare della Regola traspare pressoché a ogni pagina. Nel capitolo 2 si ricorda all’abate che ha ricevuto il nome di Padre. Nel capitolo 64 gli è chiesto di far sempre prevalere la misericordia sulla giustizia, di bandire i vizi ma di amare i fratelli, di applicarsi a essere amato più che temuto. Nel capitolo 27 gli è chiesto che «si prenda cura dei fratelli colpevoli con la più amorevole premura» e finanche di «inviare monaci anziani e saggi i quali, quasi di nascosto, incoraggino il fratello vacillante», nonché d’imitare «il gesto tenerissimo del buon Pastore che, lasciate sui monti le sue novantanove pecore, andò alla ricerca di quella sola che si era smarrita, e tanto si mosse a compassione per la sua debolezza, da degnarsi di caricarsela sulle sacre spalle e così riportarla al gregge». Sant’Odilone, abate di Cluny, è soprannominato da un contemporaneo Archangelus monachorum. Quando gli veniva rimproverata la sua troppa grande bontà, egli rispondeva: «Se sono dannato, preferisco che sia per avere usato troppa misericordia, piuttosto che per troppa durezza».
Nel capitolo 36 De infirmis fratribus («I fratelli malati»), il nostro santo Padre fa pesare in tal senso il peso della sua autorità paterna: «Prima di tutto e soprattutto ci si deve prendere cura dei fratelli malati, servendoli veramente come Cristo in persona, poiché egli stesso dice: Ero malato e mi avete visitato». Al punto che san Bernardo consigliava di comportarsi in maniera tale che il fratello malato non avesse di che rimpiangere l’assenza della propria madre.
È ancora con la più pressante carità che dev’essere accolto lo straniero di passaggio: «Tutti gli ospiti che giungono (supervenientes!) al monastero siano accolti come il Cristo in persona, poiché un giorno egli dirà: Ero forestiero e mi avete ospitato» (cap. 53). Questa regola d’oro può essere applicata in prolungamenti infiniti perché ogni uomo, in ogni momento, nel mistero della sua solitudine, merita di essere accolto come un fratello prediletto.
Per costruirsi egli stesso e intraprendere il cammino verso Dio, o per meglio dire, come afferma san Benedetto nel prologo alla Regola, giacché «si corre con cuore dilatato e con ineffabile dolcezza di amore sulla via dei divini comandamenti», ciò di cui gli uomini hanno più bisogno è una Regola saggia, una guida che «si mostri insieme esigente maestro e tenerissimo padre» (cap. 2) e una famiglia forte e unita che, come una «fortissima stirpe» (cap. 1), li aiuti a rispondere alla loro vocazione. Abbiamo conosciuto un monaco innamorato di contemplazione il cui cuore era ancora insufficientemente incendiato di carità, il quale ignorava quanto i suoi fratelli avessero bisogno di lui. Il suo Padre Abate gli disse: «Essere contemplativo significa percepire in ciascuno dei propri fratelli un mendicante d’amore». È soprattutto per la conduzione delle anime che occorrerà fare esercizio di una pazienza a tutta prova. Ci vuole, diceva il buon san Francesco di Sales, «una tazza di scienza, un barile di prudenza e un oceano di pazienza»!
Parimenti, ciò che l’Ordine benedettino ha lasciato dietro di sé di più vero e di più profondo, non sono i monumenti del suo splendore passato, né la sapienza né la bellezza del canto gregoriano restaurato, ma una profonda impregnazione di carità. Ciò che gli dobbiamo è difficile a misurare, a tal punto la nostra civiltà è stata penetrata dal suo spirito. L’istituzione benedettina, senza averlo mai cercato, ha ispirato e modellato dall’interno un certo modo di governare, il carattere paterno della funzione regale, i consigli di giustizia, le tregue nelle guerre, la creazione degli ospizi, al punto che gli storici, una volta andati oltre le epoche oscure, fanno risalire alla Regola di san Benedetto la nascita di una civiltà della bontà.
Il cardinale Schuster, antico monaco di San Paolo fuori le Mura, riporta un episodio impressionante di cui fu testimone. Il vecchio Abate del monastero, dom Bonifacio Oslaender, morente, stava ricevendo l’estrema unzione; non potendo più parlare, si sforzava con insistenza di fare comprendere ai monaci che lo circondavano il suo vivo desiderio. Poiché non vi riusciva, gli fu suggerito di provare a scrivere quel che domandava. Dice dom Schuster: «Ci trovavamo nel pieno dell’estate romana, sfiniti da lunghe notti di veglia. Egli scrisse con mano tremante e ci vollero degli sforzi per decifrare quegli scarabocchi del morente. Infine ci riuscimmo: “Dite al Padre Priore che faccia portare del gelato a tutti i monaci della comunità”. Questa attenzione delicata – prosegue dom Schuster – fa cogliere sul vivo la carità di un’anima formata alla scuola del Patriarca di Monte Cassino».
Per comprendere il genio profondo della tradizione monastica occorre ricordarsi della sua antichità e della linfa evangelica che affonda le sue radici fino ai primi tempi della Chiesa. Ella ne conserva una semplicità e un candore che i grandi momenti della sua storia, non più che lo splendore della sua liturgia – «il monaco è un bambino che canta e gioca» –, sono quasi vicini a fargliela scordare. La fedeltà dei monaci alla loro comunità si accompagna a una fedeltà alla Chiesa e a un indefettibile attaccamento alla Sede romana attorno alla quale, secondo un’antica profezia, nei tempi ultimi essi costituiranno un bastione. Assorbiti dalla loro preghiera, dai loro studi e dai loro lavori, lasciando ad altri l’opera necessaria e ardente delle grandi polemiche, i monaci ricevono dal loro fondatore il nome e l’eredità della benedizione: benedire Dio, attirare la benedizione sulla città degli uomini, formare un coro in cui il lavoro si alterni alla preghiera. Con la freccia del desiderio tesa verso l’altra riva, da cui attendono la rivelazione del loro volto autentico, essi fanno salire giorno e notte verso il Cielo un canto annunciatore della Città futura.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Ce que nous devons à saint Benoît, in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 527-541 (qui pp. 537-541), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 4 - fine]

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venerdì 11 febbraio 2011

Pax tibi Marce

[L'11 febbraio 2004 si spegneva a Pisa – lasciando la moglie e tre figlie adottive ruandesi – il professor Marco Tangheroni (1946-2004), insigne medievista, animatore di molte iniziative editoriali – ricordiamo la pubblicazione in Italia a sua cura di scritti di Gustave Thibon (1903-2001), nonché di un classico della spiritualità mariana, Il segreto ammirabile del Santo Rosario, di san Luigi Maria Grignion di Montfort (1673-1716) –, militante sin dal 1970 di Alleanza Cattolica, che ne ricorda con profonda gratitudine la testimonianza straordinaria d’impegno culturale, civile e cristiano, profusa con generosità e costanza nonostante una grave malattia, che ne ha accompagnato e segnato l’esistenza dal 1969 e che ha trovato significativo epilogo nella ricorrenza liturgica della Madonna di Lourdes. Avendo goduto noi stessi della sua fraterna amicizia, lo ricordiamo nella memoria della sua dipartita al Padre trascrivendo un suo toccante brano pubblicato in volume postumo, scritto ad Asciano Pisano nel 2002.]

La mia conversione è lontana nel tempo. Avevo ventitré anni e ora ne ho cinquantasei. Avevo praticamente tutto dalla vita. Sposato da pochi mesi con la mia ragazza di sempre, un posto di assistente universitario appena laureato, un grande futuro apparentemente davanti a me. Invece, in una settimana – la settimana di Natale – per un’influenza che fece riesplodere una malattia renale che mi aveva tenuto a letto da bambino, passai dalla salute al coma, da un brillante sorridente futuro alla prospettiva di vivere soltanto grazie alla continua purificazione del sangue da parte di una macchina, tre volte alla settimana (grazie alla dialisi, ma allora la parola era quasi sconosciuta e il trattamento praticamente agli inizi). Venivo da una famiglia moderatamente cattolica e praticante, avevo una modesta cultura cattolica verso la quale non provavo avversione, avevo avuto un tranquillo allontanamento dalla pratica religiosa. Ora, dovevo decidermi: alle domande sulla vita e sulla morte che un giovane tendeva a rinviare dovetti rispondere subito. Credetti, mi convertii. Ho fede, una fede razionale e razionalmente tranquilla. Le cose che dico nel Credo non mi pongono problemi, sono facili da credere. La fede mi ha aiutato a sopportare una lunghissima e drammatica storia sanitaria che il poco spazio mi impedisce di accennare. Mi ha salvato dalla disperazione. So di avere avuto molto dalla vita, e quindi dalla provvidenza: una moglie straordinaria, una bella famiglia, carissimi amici, tre splendide figlie adottive ruandesi, una brillante carriera accademica. Ma sarei bugiardo se non dicessi che questa fede ha vacillato e vacilla di fronte alla grande tentazione della domanda «perché a me, Signore?» «Tu vuoi certamente il bene, ma anche il “mio” bene?» «Tu sei certamente amore, ma a me perché “mi” ami così?» «Quando ti chiedo sollievo nei dolori a volte insopportabili, perché non “mi” ascolti?» «Quando, Madonnina mia, prima di un esame clinico per sapere se devo sottopormi all’ennesima operazione (la venticinquesima o la trentesima) e ti prego intensamente, e mi pare che mi sorridi, perché poi la risposta è sconfortante?». Insomma, la mia vera conversione deve ancora venire, finché non dirò, in modo pieno, continuo, sempre: «sia fatta la tua volontà».

[Marco Tangheroni, Parole mie che per lo mondo siete, Pacini Editore, Pisa 2004, pp. 31-32]

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giovedì 10 febbraio 2011

Santa Scolastica

«Poté di più colei che amò di più»
San Gregorio Magno (540 ca.-604), Libro II dei Dialoghi, 33


Il volto di santa Scolastica è per sempre scolpito da queste ultime parole del racconto di san Gregorio Magno: «... quia enim juxta Johannis vocem, Deus caritas est, justo valde judicio illa plus potuit, quae amplius amavit». Poté di più, presso Dio, colei che amò di più.
Amore e preghiera e desiderio del Cielo costituiscono il fascino spirituale di questa donna che, secondo la tradizione, fu sorella gemella del grande patriarca dei monaci d’Occidente, Benedetto da Norcia.
«Consacrata a Dio onnipotente fin dall’infanzia», la troviamo – al tramonto della sua santa esistenza – in un monastero di sanctimoniales nelle vicinanze di Montecassino, all’ombra, quindi, del grande fratello di cui certamente osservano la Regola.
Null’altro sappiamo al di fuori di questo e di quanto san Gregorio Magno dice nel capitolo 34 del secondo libro dei Dialoghi, cioè che dopo tre giorni da quel prolungato incontro (cap. 33), san Benedetto, stando alla finestra della sua cella, vide l’anima della sorella Scolastica, in forma di colomba, penetrare nelle altezze dei cieli.
L’esordio della vita e della vocazione di Scolastica lo si può, quindi, rintracciare seguendo le orme del fratello. Se veramente furono gemelli anche per nascita naturale, quale sarà stato il loro crescere insieme nell’ambito della famiglia, in quella cittadina umbra, dolcemente adagiata nel verde e tutta pervasa di religioso senso della vita?
Nata verso il 480, Scolastica è – come il fratello – fin dalla fanciullezza attratta verso la vita interamente consacrata a Dio. È probabile che la risoluta partenza di Benedetto l’abbia spinta a seguirlo in una forma di vita consona alla sua indole e al suo ideale cristiano. Perciò l’indistruttibile legame di sangue esistente tra lei e Benedetto divenne ancor più forte e definitivo nella comune vocazione che li rendeva uno in Cristo per l’eternità.
La nativa Norcia, dunque, la famiglia satura di fede e aperta ai progetti di Dio plasmarono l’animo di Scolastica, preparandola a quell’austera e insieme serena vita monastica che san Benedetto propone con la sua Regola ai più generosi seguaci di Cristo.
Per questo non ci sembra arbitrario fare in certo modo una rilettura della «santa Regola» attraverso la figura stessa di santa Scolastica quale traspare dall’unico episodio – unico, ma assai emblematico! – che della sua vita ci è rimasto. Notiamo anzitutto la «consuetudine» dei due fratelli di vedersi una volta all’anno. Forse – e ci piace pensarlo – nel tempo pasquale per la gioia di incontrarsi nella luce del Signore risorto.
In quest’ultimo incontro, la sorella è quanto mai avida di stare con il fratello per parlare delle gioie del cielo; ma deve premere su Benedetto ligio alla norma che prevedeva il rientro in monastero prima di sera. Scolastica compie un prodigio in forza dell’intensità del suo amore e della sua preghiera. È un miracolo che si iscrive sotto il segno della gratuità, quasi come quello ottenuto da Maria alle nozze di Cana, per prolungare la gioia conviviale.
San Benedetto nella Regola per i monaci dà il primato alla ricerca di Dio – Si revera Deum quaerit... (Se veramente cercano Dio) (RB 58, 7), all’amore di Cristo – Nihil amori Christi praeponere (Nulla anteporre all’amore di Cristo) (RB 4, 21), e conseguentemente alla preghiera – Nihil Operi Dei praeponatur (Niente venga anteposto all’Opera di Dio) (RB 43, 3). Scolastica realizza pienamente la sua vita in questo senso. Giunta ormai in vista della meta, altro non desidera che Dio, la comunione con lui nella luce del suo Regno. È di questo che desidera ardentemente parlare con il santo fratello supplicandolo: «Ti prego... rimaniamo fino al mattino a parlare delle gioie della vita celeste».
Non stava forse anche scritto nella Regola: «Desiderare con tutto l’ardore dell’animo la vita eterna»? (RB 4, 46). Il forte afflato escatologico che caratterizza la spiritualità della Regola benedettina raggiunge in questa santa monaca la massima intensità. Traspare inoltre da questo unico episodio la consuetudine che Scolastica aveva alle sante veglie di meditazione e di preghiera. Proprio la preghiera, sgorgante da un cuore puro e ardente, è la forza con la quale la sorella vince la sfida con il fratello, più attento all’austera disciplina. Ma anche questa, anche la preghiera di Scolastica è la realizzazione splendida e fedele di quanto Benedetto ha proposto nella sua Regola: «... non dobbiamo forse elevare con tutta umiltà e sincera devozione la nostra supplica a Dio, Signore dell’universo? E rendiamoci ben consapevoli che non saremo esauditi per le nostre molte parole, ma per la purezza del nostro cuore e la compunzione fino alle lacrime» (RB 20, 2-3). Con l’intensità della sua supplica e l’abbondanza delle sue lacrime, Scolastica ottiene dal Signore dell’universo un repentino mutamento di atmosfera. La pioggia scrosciante impedisce a Benedetto di ripartire e dona a Scolastica la gioia di rimanere più a lungo con lui per pregustare, nella contemplazione, le gioie del cielo.
Per essere pervenuta a tale intensità di vita interiore e di preghiera da poter essere esaudita dal Signore all’istante e oltre misura, la santa sorella del patriarca dei monaci aveva certamente compiuto un generoso e alacre cammino di fede, di umiltà, di povertà, di obbedienza, di carità, di essenzialità e di unificazione interiore. Aveva vissuto fedelmente la vocazione monastica secondo le direttive della Regola di Benedetto e «per ducatum evangelii» si era lasciata condurre là dove l’unica legge è quella dello Spirito che è amore e libertà.
Colpisce, nel racconto dei Dialoghi, la personalità di Scolastica. È veramente donna, con tutte le caratteristiche della femminilità: dolcezza e affettività, costanza e persino audacia nell’intento di ottenere quanto desidera; ma presenta anche una vena di simpatica ilarità, quando dal fiume di lacrime passa al radioso sorriso per il miracolo avvenuto: «Vedi – risponde al fratello rammaricato per il temporale – io ti ho pregato e tu non hai voluto ascoltarmi. Ho pregato il mio Signore, ed egli mi ha esaudita. Ora esci, se puoi; lasciami pure e torna al monastero».
È una rivincita che non dispiace certamente a Benedetto, poiché proprio lui le aveva insegnato a rivolgersi – nelle difficoltà – a Colui cui tutto è possibile (cfr. Prologo 4, 41; RB 68, 5). Per coloro che servono il Signore con totale dedizione si realizza la promessa: «I miei occhi saranno su di voi, le mie orecchie si faranno attente al vostro grido, e ancor prima che mi invochiate, dirò: Eccomi!» (Prol. 18). Dio obbedisce prontamente a coloro che gli hanno totalmente sottomessa la loro propria volontà.
Scolastica ha consumato la sua esistenza in assoluta fedeltà alla vocazione che le era sbocciata nel cuore fin dall’infanzia; ora, giunta alla piena maturità, dimostra di avere conservato la stessa fede semplice e sicura in un animo fresco come polla d’acqua sorgiva.
In lei si incarna splendidamente la tensione escatologica che percorre tutta la Regola benedettina. Dire Scolastica è immergere lo sguardo nelle azzurre «misteriose profondità del cielo» dove la sua anima, sotto la candida sembianza della colomba, è penetrata, attratta dalla forza dell’Eterno Amore. Così la poté contemplare – con quali occhi? – il santo padre Benedetto mentre pregava affacciato alla finestra della sua cella, specola del cielo.
L’itinerario tracciato dalla Regola si era concluso per Scolastica con il «miracolo» segno della «perfetta carità» raggiunta. Carità verso Dio ardentemente desiderato, e carità verso i fratelli teneramente amati (cfr. RB 72). La preghiera – subito esaudita dal Signore – appare come il puro ed efficace linguaggio dell’Amore.
Non è forse questo il messaggio essenziale che ci viene, ancora oggi, dalla santa sorella del patriarca dei monaci d’Occidente? Perché rammaricarci di non avere di lei altre notizie per poterne scrivere una biografia? Tutto quello che ella visse prima della «santa notte» del fraterno colloquio e dell’ora del suo altissimo «volo» non poteva che essere cammino decisamente orientato alla meta, così come tutto il lavoro della radice, dello stelo e delle foglie è ordinato allo sbocciare del fiore.
Scolastica, la prima monaca benedettina, è una docilissima «scolara» alla scuola del divino servizio nella quale apprende la sapienza del cuore a tal punto da... vincere il Maestro ed arrivare prima là dove insieme, correndo, erano diretti.
San Gregorio riferisce che Benedetto volle deporre il corpo della sorella «nel sepolcro che aveva preparato per sé» sulla santa montagna di Cassino. «E così, essendo sempre stati un solo spirito in Dio, neppure i loro corpi furono separati nella sepoltura» (Dialoghi, II, 34). La comunione dei Santi inizia sulla terra, nel tempo, e si compie in cielo, nell’eternità.
Chi sale oggi – dopo quindici secoli di storia – alla maestosa abbazia di Montecassino, non può non essere preso da un fremito di commozione nel trovarsi davanti alla tomba dei Santi fratelli che stanno all’origine di una numerosa stirpe di cercatori di Dio.

[Anna Maria Cànopi O.S.B., Monachesimo benedettino femminile, 2a ed., Abbazia San Benedetto, Seregno (Milano) 2008, pp. 17-24]

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martedì 8 febbraio 2011

Un contemplativo e un lottatore

[Avvicinandosi il terzo anniversario, il prossimo 28 febbraio, della scomparsa di dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), riproduciamo con vero piacere – grazie alla cortese autorizzazione dell’autore – l’articolo in memoriam dedicato al fondatore e primo abate dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux da parte di P. Louis-Marie de Blignières (nella foto a fianco, scattata al priorato di Bédoin nel 1978, accanto a dom Gérard), Priore della Fraternité Saint-Vincent-Ferrier, una comunità d’ispirazione domenicana sorta nel 1979 ed eretta nel 1988 come istituto religioso di diritto pontificio]

Durante la sconvolgente cerimonia delle esequie, mentre sotto la volta romanica si levava il canto delle cinque assoluzioni riservate ai vescovi e agli abati, due parole si sono impresse nel mio cuore, volgendo lo sguardo al bel viso di colui che è stato per me un padre, poi un amico: «un contemplativo e un lottatore». Attraverso le lacrime rasserenanti che suscita la stupenda liturgia tradizionale dei defunti, mi sono detto: la sua contemplazione continua, è passata – lo speriamo – dalla notte dolorosa della fede alla felice incandescenza della visione; e la sua battaglia non è terminata, giacché quanti ha lasciato in questa valle di lacrime avranno l’onore di continuarla.
Rientrato in convento, ho ritrovato degli appunti di oltre trent’anni fa:
«Il più bel regalo che possiamo fare a dom Gérard lo troviamo in ciò che aveva egli stesso scritto in guisa di prefazione alla riedizione delle Istituzioni liturgiche di dom Guéranger: “Siamo in presenza di un contemplativo e di un lottatore: due caratteristiche che non si oppongono se non in apparenza, poiché l’oggetto della contemplazione, quaggiù, è continuamente minacciato. Il contemplativo deve acconsentire alla lotta, come il lottatore deve essere inabitato da una visione interiore”».
Queste parole di gratitudine, pronunciate nel giorno della mia ordinazione sacerdotale, mantengono la loro attualità, ora che il mio benefattore – nonché di tanti laici, preti, religiosi e religiose – se n’è andato verso l’eterno Padre.
Quanti ricordi che si affastellano, quando lo rivedo addormentato nella pace del suo ultimo sonno, con i suoi sobri ornamenti abbaziali, all’entrata del coro. Quel 7 marzo 1977, quando il suo sorriso accolse la mia tristezza nel suggestivo priorato di Bédoin, di cui diventai oblato regolare. Quei mesi soleggiati nella giovane comunità. La storica passeggiata sulla collina di Le Barroux, ricoperta da una vegetazione cespugliosa, con quel monaco faceto che saliva sulla cima di un albero e che annunciava al gruppo (stupefatto della scelta di quel luogo così arido): «La vista è magnifica!». L’ordinazione diaconale a Carpentras, il sacerdozio a Chatelperron, quando dom Gérard officiò in veste di prete assistente al fianco di mons. Lefebvre… I consigli, giusti e severi, prodigati per l’ardore indiscreto del giovane prete, durante i diciotto mesi di soggiorno in Provenza, a Fonsallette. L’incoraggiamento dell’uomo spirituale in occasione dei ritiri del Rosario e – dopo alcune legittime esitazioni – l’approvazione del superiore religioso finalmente data… a un fondatore di trent’anni! Si è detto che dom Gérard, nello slancio implacabile della sua carità per soccorrere tutte le angosce che gli giungevano, abbia commesso un certo numero d’imprudenze. In ogni caso, non sono nella posizione adatta per farne il computo e ancor meno il rimprovero…
Il cielo dei nostri trent’anni di amicizia è stato certamente attraversato da tempeste memorabili. Nella tempesta che infuriava nella Chiesa, ci siamo trovati a più riprese – ritengo in buona fede – in opposizione, quanto alle analisi teologiche della situazione e alle scelte prudenziali che esse esigevano. Se dom Gérard mi ha fatto l’insigne carità di rimproverarmi quelli che egli reputava essere – e che erano – i miei errori, se ho ritenuto – talora temerariamente – di dovere agire con lui in tal modo, ci siamo tuttavia sempre considerati con una stima reciproca, e non abbiamo mai rotto i rapporti. Lui che detestava le mezze tinte e aborriva l’unzione ecclesiastica, approverebbe che io abbozzassi il chiaroscuro in cui s’inscrive la sua paternità su di me e poi la nostra virile amicizia. Controversie, scuse offerte e accettate, riconciliazioni e poi – particolarmente a far data dall’anno «climaterico» 1988 – una feconda e duratura fraternità d’azione, specialmente nei tentativi in comune con don Bisig, primo superiore della Fraternità San Pietro, presso la Santa Sede. Conservo ancora nello spirito i nostri incontri a tre dal cardinale Ratzinger, durante quegli anni in cui la commissione Ecclesia Dei era così contestata e fragile. Rivivo riunioni di lavoro, a Roma o a Le Barroux, scambi di richieste comuni al Magistero su punti delicati, come la – troppo – famosa dichiarazione sulla libertà religiosa. Dom Gérard mi aveva in un primo momento scritto le sue obiezioni alla nostra interpretazione sulla Dignitatis humanæ; ma qualche anno dopo presentammo assieme alcuni dubia sul tema alla Congregazione per la Dottrina della Fede, che forse un giorno saranno utili per un’interpretazione autentica nella direzione dell’«ermeneutica della continuità».
Durante gli ultimi anni della sua vita, particolarmente dopo il suo emeritato abbaziale, i nostro scambi sono proseguiti. Era una meraviglia vedere il monaco così erudito ricorrere con semplicità ai pareri dei più giovani di lui, in particolare di Padre Dominique-Marie de Saint-Laumer, per il quale aveva un affetto singolare. Amava – tramite un biglietto o una telefonata – consultarsi e interloquire, sui temi più disparati di dottrina o di liturgia, con la curiosità di un contemplativo di gran classe, al quale non era indifferente nulla di ciò che riguarda la vita della grazia (e la coerenza dell’ordine naturale, giacché era visceralmente ostile a tutto ciò che è disincarnato!). Autorizzò Sedes Sapientiæ a riprodurre la sua «Lettera ai Fratelli di Magdala», su alcuni rischi della corrente carismatica. Più volte si è felicitato con noi per alcuni articoli e ne ha fatti riprodurre taluni sulla lettera Les amis du monastère. Chi conosce la solitudine di colui che scrive potrà misurare quanto tali incoraggiamenti potevano risultarci preziosi. Mi pare che, durante quest’ultimo periodo, la nostra intesa su vari argomenti si sia pacificamente approfondita, fino ad arrivare a quell’armonia interiore che è come un discreto preludio alla comunione celeste.
«L’oggetto della contemplazione, quaggiù, è ininterrottamente minacciato»: dalla Luce in cui è entrato – o entrerà ben presto –, dom Gérard c’insegnerà a non addormentarci mai in una sicurezza ingannevole! Per la nostra vita interiore turbata dalla mediocrità, per le nostre relazioni sociali minacciate dallo spirito mondano, per le nostre battaglie politiche in pericolo di disperazione, per le nostre istituzioni religiose da proteggere dalla rilassatezza, per una carità apostolica al riparo dal silenzio dei cani muti, per il dinamismo della liturgia tradizionale – che egli amava precisamente per la sua capacità senza pari di «esprimere chiaramente il contenuto della fede» –, dom Gérard ci è d’insegnamento, mediante i suoi scritti e il suo esempio. Conservo in particolare ciò che scrisse, nel 1989, al suo antico priore in Brasile: «Si tratta di un rito, senza dubbio, ma tutte le guerre di religione sono guerre di rito. Nessuno fa la guerra se non per delle specie che hanno preso corpo». Il contemplativo e il lottatore, come pure l’artista dal tratto sicuro nella scelta delle parole, sono pienamente in queste parole.
A Dio, carissimo Padre, a ben presto, quando l’Ora sarà giunta, anche per noi.

[P. Louis-Marie de Blignières, Un contemplatif et un lutteur, in Sedes Sapientiæ, anno 26, n. 103, marzo 2008, pp. 17-20, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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lunedì 7 febbraio 2011

Die 7 februarii - S. Romualdi Abbatis

Intercessio nos, quæsumus, Domine, beati Romualdi Abbatis commendet: ut, quod nostris meritis non valemus, eius patrocinio assequamur. Per Dominum nostrum Iesum Christum, Filium tuum, qui tecum vivit et regnat, in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia sæcula sæculorum. Amen.

Romualdo, poi, abitando per tre anni entro il territorio della città di Parenzo, nel primo anno costruì il monastero e negli altri due vi rimase recluso. Lì la compassione divina lo spinse al culmine di una grande perfezione al punto che, ispirato dallo Spirito santo, poteva sia prevedere alcune cose future, sia penetrare con i raggi della propria intelligenza molte cose nascoste dell’Antico e del Nuovo Testamento. […] Spesso, infatti, lo rapiva una tale contemplazione della divinità che, come sciogliendosi interamente in lacrime, bruciando dell’ardore di un inenarrabile amore divino gridava: «Gesù amato, o amato, mio dolce miele, desiderio ineffabile, dolcezza dei santi, soavità degli angeli», e altre espressioni simili. E noi, con la nostra capacità umana, non siamo in grado di esprimere le parole che, dettategli dallo Spirito santo, egli pronunciava nel giubilo. […] E allora Romualdo non voleva mai celebrare la Messa davanti a più persone, poiché non poteva trattenersi dall’essere inondato da lacrime. […] E, dovunque il santo decidesse di abitare, dentro la sua cella costruiva anzitutto un oratorio con un altare, poi vi si rinchiudeva e ne serrava l’accesso. […]
E così, dopo aver abitato in tutti quei luoghi, vedendo ormai imminente la propria fine, ritornò, da ultimo, al monastero che aveva costruito in Val di Castro e lì, attendendo senza alcun dubbio la morte che si avvicinava, comandò che gli venisse edificata una cella con un oratorio nella quale potesse rinchiudersi e custodire il silenzio fino alla morte. […] E così, edificato il reclusorio, mentre nel suo animo già pensava che vi si sarebbe rinchiuso presto, il suo corpo cominciò a essere sempre più appesantito da vari fastidi e a declinare verso il peggio, e ciò non tanto per malattia quanto per la longevità di una vecchiaia assai avanzata. […] Un giorno, dunque, cominciò poco a poco a essere abbandonato dalle forze fisiche e a essere pesantemente fiaccato da un fastidio che lo assalì. E così, mentre ormai il sole volgeva al tramonto, comandò a due fratelli che erano presenti di uscire, di chiudere dietro di sé la porta della cella e di ritornare da lui all’alba per celebrare con lui gli inni mattutini. Essi, turbati per la sua fine, uscirono controvoglia, ma non si recarono subito a riposare, bensì, in ansia temendo che il maestro morisse, nascondendosi vicino alla cella custodivano il talento di un tesoro così prezioso. Dopo un po’ di tempo che rimanevano lì, siccome ascoltando ben attentamente con orecchi aperti non sentivano nessun movimento del corpo né alcun suono di voce, immaginando ormai senza ingannarsi ciò che era accaduto, spingendo la porta si precipitarono velocemente a entrare, accesero la lampada e trovarono il santo cadavere che giaceva supino, mentre la beata anima era stata rapita in cielo. Giaceva, così, come gemma abbandonata, da riporsi con onore nel tesoro del sommo Re. Colui, infatti, che se n’era andato come aveva predetto, migrò là dove aveva sperato.
Quest’uomo beatissimo visse centoventi anni, di cui ne trascorse venti nel mondo, tre li visse in monastero e novantasette li passò nella forma di vita eremitica. Ora, perciò, brilla di luce ineffabile tra le pietre vive della Gerusalemme celeste, esulta con le schiere infuocate degli spiriti beati, è rivestito della candidissima veste dell’immortalità ed è incoronato dallo stesso Re dei re con un diadema che brilla in eterno.

[San Pier Damiani (1007-1072), Vita beati Romualdi, trad. it. in I Padri camaldolesi, Privilegio d'amore. Fonti camaldolesi. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2007, pp. 65-155 (pp. 111-112 e pp. 151-153)]

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venerdì 4 febbraio 2011

San Benedetto e la nostalgia del monachesimo antico

La cultura monastica del medio evo è fondata sulla Bibbia latina. Ma la Bibbia è inseparabile da quelli che l’hanno commentata cioè dai Padri, spesso designati semplicemente come gli expositores perché, anche in quegli scritti che noi non chiameremmo commenti, hanno prevalentemente spiegato la Sacra Scrittura. Inoltre il monachesimo è orientato verso la patristica per una ragione particolarissima: per il suo testo fondamentale e per la sua origine. Infatti da una parte la Regola di S. Benedetto è essa stessa un documento patristico: suppone ed evoca tutta la spiritualità antica; d’altra parte S. Benedetto prescrive la lettura nell’Ufficio divino delle expositiones fatte dai Padri, come egli li chiama; nel suo ultimo capitolo, invita nuovamente i monaci a leggere i Padri: questo termine ritorna quattro volte in questo capitolo e indica più particolarmente i Padri del monachesimo. Ora essi sono orientali e da questo fatto deriva una conseguenza nuova: il monachesimo benedettino non è solo attratto verso le fonti patristiche in generale, ma particolarmente verso le fonti orientali.
Questo deve essere sottolineato con insistenza, perché S. Benedetto non ha certo voluto rompere il legame con la tradizione monastica antica in gran parte orientale. Al contrario nella vita di S. Benedetto scritta da S. Gregorio, nello spirito della Regola, nelle letture che egli raccomanda e nelle osservanze che prescrive, tutto rivela una preoccupazione di continuità e di fedeltà al monachesimo antico. Tuttavia S. Benedetto non è «un orientale capitato per caso in Occidente»: è un latino, ma rispetta questa tradizione orientale «che costituisce per il monachesimo ciò che la tradizione apostolica rappresenta per la fede della Chiesa». Ancor più, e lo si indovina attraverso alcune allusioni della sua Regola, egli ha, in certo modo, la nostalgia del monachesimo antico.

[Dom Jean Leclercq O.S.B., Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, trad. it., Sansoni, Milano 2002, pp. 115-116]

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giovedì 3 febbraio 2011

Il poema della liturgia

Il senso della maestà del Signore fu una delle caratteristiche dominanti della riflessione religiosa dei monaci. Ora essa si è manifestata, più ancora che nei loro scritti teologici, nella loro produzione liturgica. Questa merita di essere considerata e di esserlo per ultima, perché è legata a tutto il resto della vita monastica: alla sua pratica, perché è ordinata ad una delle sue osservanze principali che è l’esercizio del culto; alla sua cultura, di cui fu, a un tempo, lo stimolo e il risultato. Indubbiamente la liturgia costituisce una delle fonti di questa cultura: è in parte per mezzo di essa, in essa, che i monaci entravano in contatto con la Scrittura e i Padri, si compenetravano dei grandi temi religiosi tradizionali. Ma fu egualmente nella liturgia che la loro cultura trovò uno dei suoi terreni privilegiati di espressione: proprio per essa composero i testi più numerosi. Sono, oggi, i più dimenticati, ad eccezione di qualche capolavoro la cui origine monastica non è quasi più conosciuta, perché sono entrati nel tesoro comune della liturgia occidentale. Ma queste composizioni scelte sono parte di un insieme vastissimo: non si avrebbe, senza di esso, un’idea completa della letteratura monastica.
Il termine liturgia è preso qui in quel senso largo in cui può designare tutte le forme della preghiera. Nel medio evo esse trovano la loro perfetta espressione e la loro sintesi nella celebrazione pubblica dell’ufficio divino. Non era stato così in tutti i tempi: i monaci delle prime generazioni avevano, da soli o insieme, recitato Salmi, e talvolta in gran numero; ma quasi non avevano fatto posto, nella loro vita ritirata dal mondo, al culto pubblico della Chiesa. S. Benedetto era ritornato, su questo punto, come su altri, a una giusta misura: dodici salmi per notte, e il salterio intero ogni settimana. Aveva arricchito l’ufficio monastico di testi non biblici in uso nel culto di alcune chiese, come quegli inni che aveva chiamato «ambrosiani»; aveva insistito sull’alto valore di questa preghiera comune, di cui aveva fissato quasi tutti i dettagli. Ma nella sua Regola, l’ufficio divino non è una delle occupazioni che richiedano la maggior parte del tempo. Ben presto, per influenza di circostanze che egli non aveva potuto prevedere, la parte fatta alla liturgia nella vita monastica si accrebbe sempre più. […]
I monaci hanno scritto poco sulla liturgia: era evidente che essa era importante e, per uomini che vivevano costantemente nella sua luce, non esigeva commenti; piuttosto essa stessa costituiva il commento normale e ordinario della Sacra Scrittura e dei Padri. Questo è vero specialmente per Cluny, dove la liturgia occupava un posto così grande: S. Odone nelle sue Conferenze e nel suo poema su l’Occupazione, S. Odilone nei suoi sermoni, Pietro il Venerabile nei suoi diversi scritti non spiegano per nulla la liturgia e ne parlano raramente. Si scrivevano senza dubbio testi destinati ad esservi letti: leggende agiografiche, sermoni solenni come quelli di Pietro il Venerabile su S. Marcello o sulle reliquie di un santo, o quelli di S. Bernardo su S. Vittore; si componevano trattati di computo in cui tutte le risorse dell’aritmetica e dell’astronomia servivano a calcolare il ciclo delle feste; si domandavano alla liturgia i temi della predicazione, anche quando questa consisteva nell’interpretare la Scrittura: così i sermoni di S. Bernardo sul Salmo Qui habitat abbondano di allusioni alla Quaresima durante la quale si cantano spesso versetti di questo Salmo. Sono dunque pochi gli scritti monastici che noi possediamo sulla liturgia. Generalmente – e anche su questo punto appare una delle costanti della cultura monastica – i riti si giustificano con la storia, come in quel «manuale di liturgia», in cui Valafrido Strabone studiò le origini e gli sviluppi di certe osservanze ecclesiastiche. Ma questi trattati di carattere pratico o erudito non sono elogi dell’ufficio divino, della sua bellezza o del suo valore pedagogico; non sono esortazioni a riconoscergli un posto di preminenza nella vita religiosa: questi generi letterari sono necessari solo nei periodi in cui bisogna ravvivare il senso liturgico e restaurare la liturgia. I monaci, al contrario, sono unanimemente convinti dell’importanza primordiale che spetta all’attività con cui proclamano la gloria di Dio: il sentimento della maestà del Signore orienta e domina tutti i loro scritti, come quel trattato di Ruperto di Deutz Sugli uffici divini nel cui prologo egli afferma con tanta forza:
«I riti che secondo l’ordine stabilito nel corso dell’anno si compiono negli uffici divini… sono segno delle più alte realtà e contengono i massimi misteri dei divini segreti… Poiché questi riti sono stati ordinati e istituiti per la gloria del Signore nostro Gesù Cristo, che è il capo della Chiesa, da quegli uomini che intesero in modo sublime i misteri della sua Incarnazione, della sua Natività, della sua Passione, della sua Resurrezione e della sua Ascensione e fedelmente e sapientemente si studiarono di proclamarli con la voce, con le lettere, e con questi riti… Ma celebrare questi riti e non intenderli è come parlare una lingua e non saperla comprendere. Chi poi parla le lingue, dice l’Apostolo, preghi per aver il dono dell’interpretazione; e, tra i doni spirituali dei carismi, con i quali lo Spirito Santo orna la sua Chiesa, ci esorta a desiderare soprattutto la profezia, cioè il dono per il quale possiamo anche capire con l’intelligenza quel che diciamo pregando in ispirito o salmodiando».

[Dom Jean Leclercq O.S.B., Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, trad. it., Sansoni, Milano 2002, pp. 307-310]

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mercoledì 2 febbraio 2011

Noir et Blanc: l'abbazia Notre-Dame di Randol


Presentiamo di seguito un estratto del documentario Noir et Blanc, realizzato nel marzo 2005 dal cineasta francese Christophe Deat per Les Film d'Ailleurs. Il pregevole cortometraggio è dedicato all'abbazia benedettina della Congregazione di Solesmes Notre-Dame di Randol, sita nel cuore dell'Auvergne, fondata nel 1971 dai monaci dell'abbazia Notre-Dame di Fontgombault e il cui Padre Abate è attualmente dom Bertrand de Hédouville O.S.B.





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martedì 1 febbraio 2011

Dom Jean Leclercq O.S.B. (1911-1993)

[Ricorre in questi giorni, precisamente il 31 gennaio, il centesimo anniversario della nascita di dom Jean Leclercq O.S.B. (1911-1993), francese d’origine, monaco dell’abbazia di Clervaux – nel Lussemburgo –, studioso universalmente noto del monachesimo medievale, curatore dell’Opera omnia di san Bernardo e di altri testi fondamentali, tra cui quello che è considerato il suo capolavoro, L’amour des lettres et le désir de Dieu – pubblicato a Parigi nel 1957 e che ha conosciuto molteplici traduzioni –, la cui attualità e importanza è stata a più riprese messa in luce da Benedetto XVI, che in molti interventi ha fatto riferimento agli scritti di questo monaco dai tratti eccezionali: solo per citarne uno su tutti, si veda il discorso pronunciato, il 12 settembre 2008, al Collège des Bernardins di Parigi. «Il suo grande merito – ha affermato il discepolo e curatore di molte sue opere, dom Gregorio Penco O.S.B. – è stato quello di indicare nella teologia monastica la diretta continuatrice ed erede della teologia patristica. Prima di lui tutta una tradizione culturale ispirata ai canoni dell’illuminismo aveva rigettato come insignificanti molti scritti di spiritualità monastica, che in seguito, grazie alla sua scrupolosa ricerca, sono apparsi una delle espressioni più alte di una civiltà posta al servizio della fede e della contemplazione di Dio». Ebbe a dire dell’esperienza monastica benedettina, in un’intervista del 27 febbraio 1986: «La libertà benedettina è la libertà cristiana. Essa consiste primariamente in un consenso all’essere, a Dio, così come fa Cristo nel Getsemani. La vita monastica, improntata alla Regola di san Benedetto, è una scuola di vita in cui si è educati a essere liberi. Liberi dentro un’obbedienza. Questo è infatti il mistero della vita cristiana: più si obbedisce più si è liberi». Per ricordare il centenario della nascita di dom Leclercq Romualdica propone in questi giorni alcuni estratti dalla sua celebre opera L’amour des lettres et le désir de Dieu.]

La vita cristiana, secondo S. Gregorio, è una progressione che va dall’umiltà all’umiltà, si potrebbe quasi dire: dall’umiltà acquisita all’umiltà infusa; umiltà custodita dal desiderio di Dio in una vita di tentazione e di distacco, approfondita e confermata dalla conoscenza amorosa nella contemplazione. Queste fasi successive S. Gregorio le richiama in descrizioni continuamente rinnovate. Egli non le analizza in termini astratti, filosofici, ma prende dalla Bibbia le immagini concrete che permettono a ciascuno di riconoscere in queste esperienze la propria avventura personale. Per questo il suo insegnamento risponde al bisogno di generazioni che nascevano dal mondo barbarico, dopo le invasioni: a queste anime semplici e nuove, egli offriva una descrizione consolante ed accessibile a tutti, della vita cristiana. Questa dottrina, molto umana, era fondata su una conoscenza realistica dell’uomo così com’è, corpo ed anima, carne e spirito; senza illusione ma senza disperazione, era animata da una visione di fede; da una reale fiducia nell’uomo in cui Dio dimora e in cui opera mediante la prova. E questa lettura comunicava pace, grazie alla pacatezza del suo linguaggio. Quest’uomo che descrive continuamente il conflitto interiore dell’uomo lo fa con parole che sono pacificanti. Si trova ad ogni pagina l’alternarsi della miseria umana e dell’esperienza di Dio, ma anche la loro conciliazione, la loro sintesi nella carità.
Infine questa dottrina è una vera teologia: essa implica una teologia dogmatica, sviluppa una teologia della vita morale e della vita mistica e queste sono pure l’oggetto della teologia. Questa teologia non è meno esplicita per il fatto di essere distribuita nel corso di lunghi commentari. Oserebbe qualcuno dire che non vi è della filosofia in Platone perché essa è sparsa nei dialoghi e che vi è invece una filosofia in Wolff perché qui è esposta sistematicamente? S. Gregorio riflette sulle realtà della fede per meglio comprenderle; non si limita a formulare delle direttive pratiche sul modo di vivere conformemente a queste realtà. Egli ne cerca e ne propone una conoscenza profonda: la ricerca di Dio, l’unione con Dio, sono da lui inserite in una dottrina complessiva dei rapporti dell’uomo con Dio. Su questa dottrina e sui testi che la esprimono, il monachesimo medioevale non ha cessato, a sua volta, di riflettere. Esso l’ha perciò arricchita, ma non rinnovata. Péguy diceva: «Nessuno ha superato Platone». Sembra che nell’analisi teologica dell’esperienza cristiana, non sia stato aggiunto nulla di essenziale a S. Gregorio. Ma perché le idee antiche rimangano giovani, è necessario, ad ogni generazione, pensarle e scoprirle come se fossero nuove; la tradizione benedettina non è venuta meno a questo dovere.

[Dom Jean Leclercq O.S.B., Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, trad. it., Sansoni, Milano 2002, pp. 41-42]

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